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LA PITTORA

“… farò vedere cosa è capace di fare una donna.”
Con queste parole, Artemisia Gentileschi rispondeva al suo committente preoccupato della riuscita dell’opera commissionata.
Non: “…di cosa sono capace io.”
Oppure: “…di cosa è capace una pittora.”
Ma “…una donna.”
In questa affermazione c’è tutta la consapevolezza, la coscienza, la forza di una “femminista” del seicento.
Quando ha risposto a Don Antonio Ruffo, che le aveva commissionato un “Bagno di Diana”, Artemisia aveva cinquantasei anni. Tutta una vita passata a dipingere in un ambiente esclusivamente maschile in un periodo in cui le donne erano soltanto macchine da figli, macchine da lavoro, macchine da piacere. Una vita travagliata, piena di passioni, dolori, desideri, ma anche di soddisfazioni, orgoglio, esuberanza: una vita che vale la pena raccontare.
Nasce a Roma il giorno 8 luglio del 1593. Figlia di un pittore pisano trasferito a Roma per lavoro: Orazio Lomi Gentileschi. La madre, Prudenzia Montone, muore di parto dopo aver partorito, oltre ad Artemisia, sei bambini di cui tre sopravvivono all’infanzia: Francesco, Giulio, Marco. Questi tre bei tipetti, li rincontreremo più avanti.
Nonostante i molti incarichi, Orazio se la passava male: cambiava casa continuamente, non aveva servitori e usava la sua abitazione come “studio”.
Artemisia (si chiamava così per riguardo alla sua madrina: Artemisia Capizucchi, nobile romana) cresce tra i modelli che posavano per il padre, i pittori amici che venivano a trovarlo, i quadri, i colori.
Intorno ai 15 anni preparava per Orazio tutto ciò che serviva: tele, tinte, colori, scenografie. Malgrado il padre cercasse di tenerla segregata facendola uscire accompagnata dalla domestica Tuzia (che ritroveremo più avanti), Artemisia acquisì un’educazione artistica profonda e completa, anche se “fatta in casa”.
Se la rapportiamo all’altra grande pittora sua contemporanea, Lavinia Fontana, gli sforzi per raggiungere la propria competenza furono molto maggiori. Lavinia era nobile e ricca. Il padre, Prospero, era un nobile bolognese che si circondava di artisti, di statue, di quadri, in un ambiente decisamente vivace e creativo.
Artemisia si doveva accontentare di un ambiente “casareccio”.
Anche il suo più grande contemporaneo, Caravaggio, si serviva di quello che “passava l’osteria”. Sia Orazio che la figlia, furono influenzati da quel nuovo modo di dipingere: la realtà, la luce, gli ambienti, le persone vive e vere rappresentate al naturale, al servizio di una sensibilità artistica superiore.
Orazio aveva frequentato Caravaggio per almeno tre anni: dal 1600 al 1603. I pittori avevano visto reciprocamente la produzione di ciascuno, si erano scambiati impressioni, pareri, suggerimenti, strumenti. Orazio aveva preso parte come testimone a favore, nel processo a Merisi in seguito a una denuncia di Giovanni Baglione (che poi, fu il biografo di Orazio e Artemisia). Sicuramente Artemisia avrà potuto guardare i dipinti di Caravaggio: il proprio modo di dipingere resterà influenzato dal più grande pittore dell’epoca.
Contemporaneamente, Artemisia, andando a trovare il padre sui vari cantieri in cui operava, aveva modo di ammirare e studiare le varie statue greche e romane che nobili e cardinali posizionavano nelle proprie residenze o nelle strade e nelle piazze che ritenevano di dover abbellire. All’età di diciassette anni, Artemisia era pronta a spiccare il volo sulla scena dell’arte pittorica.
Ovviamente, i soggetti principali furono quelli religiosi, in particolare quelli riguardanti le donne: Susanne, Giuditte, Madonne.
La prima opera che ha reso veramente celebre Artemisia, fu una Susanna e i vecchioni del 1610. Con questo quadro, preceduto da un paio di autoritratti nelle vesti di Allegoria della pittura e Allegoria della poesia, si impose all’attenzione e alla considerazione dell’ambiente artistico romano.
Cominciò ad usufruire anche lei dei modelli che il padre trovava nelle strade e nelle osterie di Roma e portava nella casa-studio per lunghe pose. La scelta caravaggesca di servirsi di persone “vere” fu seguita da Orazio che prese a dipingere al modo del suo amico-maestro Merisi.
In questo modo Artemisia ebbe la possibilità di perfezionarsi nei ritratti e nelle scene non più soltanto religiose, che divennero i temi preferiti per i suoi quadri.
Nel 1611 succede il fattaccio che condizionerà la sua vita.
Lei non ha ancora diciott’anni quando un amico del padre, pittore anch’egli, approfittando di trovare Artemisia sola nella casa che lui abitualmente frequentava liberamente, la violenta.
Come tutte le donne abusate, lei si sente “rovinata” e cerca di costringere Agostino Tassi a sposarla. La faccenda va avanti per circa un anno e Tassi se la svigna: a quel punto Orazio lo denuncia e si intenta il processo.
Senza stare ad analizzare gli atti, i personaggi, le false e vere testimonianze, i voltafaccia, i giudici corrotti ecc. diciamo solo che Tassi viene condannato a qualche anno di esilio (che non sconterà) e Artemisia resta sola.
La pittura diventa la sua ragione di vita e di riscatto: si impegna in maniera totale e, vista la sua bravura, si conferma “pittora” di valore e arrivano le commissioni di potenti e prelati che fanno a gara per ottenere da lei quadri e ritratti.
A questo punto occorre inquadrare la vita di Artemisia nell’ambiente e nella situazione storica del momento.
Il 1600 inizia in Italia con una situazione politica abbastanza tranquilla: Stati e Staterelli hanno smesso (per il momento) di combattersi per ottenere supremazie territoriali, politiche, amministrative. Non lo hanno fatto perché convinti che qualche ettaro di terra in più possa cambiare la vita a regnanti e sudditi: si trattava di una scelta forzata, perché così voleva il Padrone. Il Padrone era la Spagna.
Gli Asburgo spagnoli si erano assicurati il dominio di città e stati di primaria importanza: Napoli, Milano, Sicilia, Sardegna, Maremma. Rimanevano fuori della giurisdizione spagnola (ma non dell’influenza economica) solo Venezia, Genova, Roma, Torino.
I governatori erano tutti castigliani e vessavano più o meno violentemente i sudditi che ogni tanto accennavano qualche ribellione sedata nel sangue.
Gli Asburgo d’Austria si erano accaparrati buona parte dell’Europa settentrionale: un’unica famiglia regnava su un continente.
In questa situazione politica, il papa doveva barcamenarsi per cercare di mantenere i suoi possedimenti e un’importanza internazionale che non gli veniva riconosciuta. Il sistema delle alleanze, che aveva portato alla battaglia di Lepanto (dove la flotta in massima parte costituita da navi veneziane), garantiva alla Chiesa la sovranità sull’Italia centrale, ma soprattutto l’autonomia amministrativa. In questo modo Roma era diventata la città dove i nobili diventavano sempre più ricchi sfruttando il territorio, e i prelati diventavano veri e propri “principi” commerciando in elemosine e prebende.
Tutta questa ricchezza generava una ricerca di esternazioni in cui l’arte era una delle maggiori ostentazioni. La città era tutta un cantiere: venivano fatti o rifatti palazzi, piazze, strade, interi quartieri. I potenti abbellivano le loro residenze con quanto di migliore offrisse l’architettura, la scultura, la pittura. C’era un via-vai di artisti, artigiani, maestranze, che erano chiamati da tutta Italia (e anche da fuori) per far competere a suon di incarichi, i ricchi romani in una gara per la supremazia del bello.
Teniamo comunque presente che il secolo era cominciato coi grandi processi dell’Inquisizione: Bruno, Galilei, Cenci, non fanno dimenticare che il papa era sempre e comunque un capo politico e aveva bisogno di mantenere l’ordine alla luce delle indicazioni controriformiste del Concilio di Trento. Anche non attuando il violento bigottismo di Paolo IV e di Pio V, i papi del 1600 hanno lasciato tracce di sangue sui palazzi e sui monumenti dell’epoca.
A Roma l’economia legata all’arte era fiorente, ognuno riusciva a ottenere vantaggi dal mercato. C’era bisogno di tutto: alloggi, vivande, materiali da costruzione, ogni cosa veniva comprata e venduta, donne comprese.
In questo ambiente politico e sociale Artemisia fa la sua scelta di vita: sarà una donna libera e farà dell’arte la sua ragione di vita e di riscatto.
Appena terminato il processo contro Tassi, Artemisia sposa Pietrantonio Stiattesi, fiorentino, fratello del notaio che aveva difeso la donna nel procedimento. I due partono per Firenze, visto che durante il processo (durato oltre un anno) Orazio aveva più volte scritto a Cristina di Lorena moglie di Cosimo I raccomandando la figlia e presentandola come “femmina molto esperta in pittura”.
La corte dei Medici era da oltre un secolo un punto di arrivo per artisti di ogni genere: anche Artemisia si inserì in questa fucina di meraviglie e fu la prima “caravaggesca” a far conoscere la sua pittura attraverso commesse sempre più frequenti e importanti.
A Firenze c’era la famiglia del marito e anche suo zio Aurelio Lomi, fratello del padre. Anche la vita affettiva aveva la giusta importanza e Artemisia per qualche anno visse in una certa tranquillità.
Firmava i suoi quadri come Artemisia Lomi, forse in nome di una certa riconoscenza nei confronti dello zio e del padre che con la raccomandazione ai Medici, le aveva spianato la strada.
Nel 1613 nasce il primo figlio: nel corso degli anni partorirà altre tre volte, ma dei piccoli sopravviverà solo Prudenzia detta Palmira.
Artemisia frequenta per lavoro e per diletto i personaggi più in vista della corte fiorentina, tra cui poeti (Chiabrera), drammaturghi (Cicognini), letterati (Buonarroti il giovane), pittori (Allori), persino Galileo, già amico del padre.
Dimostra un temperamento forte, deciso, anticonformista. In più è una donna “vaghissima di aspetto”, come viene definita dal cronista Baldinucci. Quando Cristofano Allori tiene a battesimo il figlio di Artemisia e (forse) di suo marito Stiattesi, molti a Firenze parlano (e sparlano) di un rapporto con Allori ben oltre gli interessi artistici. Allori era un buon pittore e influenzò lo stile di Artemisia che addolcì i toni caravaggeschi introducendo una certa dose di eleganza e manierismo nei suoi dipinti.
Nel frattempo aveva imparato a leggere e scrivere (per una donna, una cosa incredibile per l’epoca). Cominciò a ballare, a fare teatro, a comporre poesie, a cavalcare. Nel 1616 si iscrisse all’Accademia del Disegno: pagò la quota di iscrizione un altro amico (forse… troppo amico): Giorgio Vasari il giovane.
La sua produzione è tanto vasta quanto apprezzata: molte volte usa se stessa per ritrarre allegorie o personaggi biblici o eroici. Tutti autoritratti che contribuiscono a diffondere la sua immagine piacevole: in quel modo non solo i committenti erano stimolati a conoscerla. Tra i tanti, Francesco Maringhi, socio del nobile Frescobaldi, stabilisce un rapporto amoroso che durerà per tutta la vita di Artemisia.
Nel 1620, all’improvviso, lei e il marito partono precipitosamente da Firenze verso Roma. I motivi a giustificazione sono spiegati con la cattiva salute dei due figli (che poi a breve morranno), con i debiti, con il sequestro addirittura del mobilio di casa. Molto più probabilmente, è il marito che impone questa vera e propria fuga, considerata la sua situazione di “cornuto” (così venne definito da molti), visto il rapporto di Artemisia con Maringhi. L’anno successivo Maringhi compra mobilio e suppellettili dello studio fiorentino di Artemisia. Nel 1623 Pietrantonio Stiattesi scappa da casa e fa perdere le sue tracce: la donna rimane sola a Roma. Cambia casa più volte fino al 1626. Conduce una vita sobria e agiata, indipendente e originale.
Nel 1627 è a Venezia. Continua a fare da modella per i suoi personaggi in pose originali e provocanti che accrescevano fama e valore. Non è chiaro il motivo del trasferimento, forse legato all’attività non troppo onesta dei suoi fratelli Guido e Francesco, che dovevano trattare col duca di Mantova per l’acquisto della collezione di dipinti da parte del re d’Inghilterra.
Orazio nel 1626 si era traferito a Londra e lavorava per grandi committenti tra cui il Re. Aveva segnalato a Carlo I i suoi figli come persone fidate e il re li aveva incaricati della trattativa a Modena. Il fatto è che i due furbacchioni se la spassano per mezza Italia coi soldi del re e l’affare non si conclude. Artemisia si interessa marginalmente della cosa, ma ha modo di conoscere un nobile inglese emissario del re, che si innamora di lei: Nicholas Lanier. La storia sentimentale è tutta da scoprire.
Lanier non è il solo a essere colpito dal fascino di Artemisia: artisti e nobili le dedicano madrigali, versi amorosi, o invettive a seguito di rifiuti. La vita veneziana della pittora è tanto brillante quanto produttiva, fino a quando (1629) scappa da Venezia a causa della peste.
Alla fine dello stesso anno è a Napoli, al culmine della sua fama. Lì ritrova un pittore già conosciuto a Roma: Massimo Stanzione detto il Cavalier Maximo. Un artista che aveva ripreso l’eredità artistica lasciata da Caravaggio a Napoli, addolcendola con naturalismi meno accesi e violenti di quelli di Merisi. Tra Artemisia e Stanzione si stabilisce un rapporto di lavoro e non solo.
L’ambiente napoletano era vivace e ricco: dal viceré ai nobili, ai prelati, tutti commissionavano opere ad artisti di ogni livello. La competizione per l’accaparramento degli incarichi era agguerrita, ma Artemisia aveva una fama tale che era ricercata da tutti, e non solo per i suoi quadri.
Nei tanti anni passati a Napoli, incontra, frequenta o stabilisce rapporti epistolari con grandi personaggi: Simon Vouet (che aveva conosciuto a Roma), Diego Velasquez (che frequenta a Napoli), Cassiano Dal Pozzo, Galileo, Van Dyck (durante un breve soggiorno a Londra), Ferdinando II Medici a cui chiede espressamente di essere accolta alla sua corte. Napoli cominciava a diventare invivibile: carestie, rincari, scontri in piazza, spinsero Artemisia a cercare un altro posto dove dipingere tranquillamente.
Nel 1638 parte per Londra, forse con la speranza di poter sostituire il padre malato, alla corte d’Inghilterra. Orazio muore nel 1640 ma Artemisia continua a scrivere in Toscana per ottenere una sistemazione migliore. Di lei non si hanno notizie certe fino al 1648 in cui la sua presenza è documentata a Napoli.
In quegli anni ha certamente continuato a lavorare e suoi quadri sono presenti nelle collezioni di mezza Europa. A Napoli stabilisce un rapporto con Don Antonio Ruffo di Sicilia, suo nuovo mecenate.
I suoi personaggi, che compiono gesti spettacolari, sono inseriti in scene complesse, piene di drammaticità e di erotismo, con abiti ricchi e variopinti, ritratti nel suo studio ma sempre “presi dalla strada”. Malgrado Ruffo le dia incarichi sempre di prestigio, lei si lamenta di “essere pagata meno di un maschio” perché il fatto di essere donna “mette in dubbio sin che non si è visto l’opra”. In questo momento scrive a Don Antonio la sua più bella dichiarazione: “…farò vedere quello che sa fare una donna!”
Nell’ultima lettera a Ruffo di cui si ha notizia, Artemisia, oltre a rassicurarlo sul suo lavoro (sta completando due quadri per lui), gli ricorda di essere stata a letto per tutto il periodo natalizio del 1650, a causa di “molti acciacchi e travagli”.
Nel frattempo si è impegnata con Ferdinando II Asburgo per “tre grandi tele”, continua a lavorare per la grande quantità di commissioni che riceve e che smaltisce con l’aiuto di Onofrio Palumbo, pittore napoletano, con cui si mette in società. L’attività è documentata fino al 1654. Uno dei suoi ultimi dipinti ha ancora una volta come soggetto “Susanna e i vecchioni” e documenta l’evoluzione artistica della pittora che ha influenzato un’epoca.
Pare che questa grande “donna con l’animo di Cesare”, morì nell’epidemia di peste del 1656. Fu seppellita nella chiesa di S. Giovanni de’ Fiorentini con una lapide scarna quanto grande: “hic Artemisia”.
Per lei, due veneziani, che sicuramente l’hanno conosciuta, compongono due epitaffi che esprimono tutto il rancore causato dall'invidia per una donna molto superiore a troppi uomini.
Giovanfrancesco Loredan scrive: “Col dipinger la faccia a questo e a quello, / nel mondo m’acquistai merto infinito. / Ne l’intagliar le corna a mio marito / lasciai il pennello e presi lo scalpello.”
Pietro Michiele scrive: “Gentil’esca de’ còri a chi vedermi / poteva sempre, fui nel cieco mondo. / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / sono fatta Gentil’esca de vermi”.
La sua tomba fu dispersa nei lavori di restauro del 1785.
Ancora una volta, non esiste un luogo dove posare un fiore per un Grande!

Maurizio Marcelli

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