UN ROMANO DE GRINZA

“Sentite che ve dice er Sor Capanna…”
Tutti i romani conoscevano queste parole, ascoltate agli angoli delle strade di una città che non c’è più.
I cantanti di strada erano un fenomeno comune in tutta Italia, tra l’inizio del XX secolo e gli anni ’50, ma quella del Sor Capanna fu una figura mai eguagliata.
Non era un semplice cantante, era Roma che si esprimeva in musica.
Una musica sempre uguale, fatta di endecasillabi perfetti che oggi viene ancora usata dai poeti dialettali per verificare la metrica dei loro versi.
La musica era la stessa, ma le parole sempre diverse: erano come spade che affondavano nel ventre molle della società dei primi due decenni del ‘900.
I versi stigmatizzavano, sbertucciavano, corrodevano, irridevano, incrinavano il potere: quello politico, economico, militare, addirittura quello ecclesiastico.
Alla fine dei concertini del Sor Capanna, tutti i presenti battevano le mani, si complimentavano, si allietavano, si convincevano, ma al momento di lasciare un piccolo obolo per il grande cantastorie… si squagliavano.
Sor Capanna ironizzava sull’atteggiamento degli ascoltatori, e non se la prendeva troppo a male: sapeva che un po’ qua, un po’ là, avrebbe rimediato qualche soldo per sfamare la famiglia.
Pietro Capanna nasce a Roma/Trastevere in via del Verderame, che poi si chiamerà via Luciano Manara, nel 1865.
Non si sa quasi niente dell’educazione scolastica di Pietro, né dello studio della chitarra, ma si può facilmente intuire che fosse per tutte e due le cose un autodidatta.
Fece diversi mestieri: macellaro, muratore, voltarolo, cerarolo, maccaronaro, fornaro.
Non si sa neanche quale fu il primo e quale fu l’ultimo, che lo costrinse ad abbandonare il lavoro vista la grave infezione agli occhi che lo obbligò ad adottare un paio di occhialoni scuri perché diventò quasi cieco del tutto.
Qualcuno parlò di congiuntivite dovuta alle esalazioni della cera liquefatta, nella cereria dove lavorava; altri, a schizzi di calce durante l’attività di voltarolo (realizzatore di volte). Sta di fatto che si inventò l’unico lavoro per lui possibile: il “cantastoria” (come diceva lui).
Strimpellando discretamente la chitarra, approfittò di una certa vena satirica, tutta romanesca, per crearsi il mestiere per cui diventò famoso tra le classi umili (e non solo) di tutta Roma.
Chi voleva ascoltare le ultime notizie trasformate e adattate in versi musicali, andava nelle “poste” dove normalmente il Sor Capanna si esibiva quasi gratuitamente essendo gli ascoltatori poco inclini a lasciare qualche spicciolo al "cantastoria".
Malgrado tutto, Sor Capanna con i pochi soldi rimediati mantenne la famiglia e addirittura mise su una “compagnia”: un carro, che serviva da palcoscenico, trainato da un cavallo bolso (di nome Pantalone); una “spalla” femminile (la moglie Augusta); una “cantante litrica”, Francesca Pappagallo detta la Bellinciona (o Bellincioni, secondo alcuni); Teresa Palombini, detta la “Tetrazzini”; Cesare Palombini detto “Caruso”; Giovanni Giovannini detto “er Comparetto” e Gallo Galli detto “er Galletto” che lo accompagnavano con mandolino e organetto. Sor Capanna, vestito da Rugantino, era l’autore dei testi che la compagnia eseguiva al ritmo di melodie prese a prestito dalle musiche del tempo.
Questa compagnia, che negli anni ha aggiunto o modificato i propri componenti, si esibiva prevalentemente durante il carnevale che a Roma era molto sentito anche senza raggiungere i fasti del secolo precedente.
Durante il resto dell’anno, Sor Capanna si esibiva da solo o con la Bellinciona (quando era sobria) o con uno dei suoi compagni d’arte.
Vestiva una giacca nera di una misura discretamente più piccola rispetto a quella necessaria per vestire il suo fisico imponente; pantaloni grigi (sempre quelli); occhiali con lenti scurissime; un cappello tipo Lobbia; la chitarra, che era attrezzo di lavoro e fida compagna.
In breve tempo diventò il “Gazzettino cantante e popolare di Roma”.
Cantava di tutto: gli stornelli venivano addirittura stampati e venduti (poco) durante i “concerti” su musica “composta per me da un celebre maestro cacofonico e da altri musicisti di tutti i colori”.
Alternava il ritmo del suo famoso “sentite che ve dice er Sor Capanna” con la “melodia” di “Bombacè, aritirete che sò tre”
I suoi bersagli preferiti erano… tutti. Persino le donne: sia per sottolinearne la condizione servile e subalterna, che per stigmatizzare il loro comportamento in amore.
Dalla “signora” al mare che faceva la civetta col bagnino, “mentre er marito se la sta a guardà”; alla servetta destinata a tentare il suicidio per amore “co le capocce de li zorfanelli”.
Molte delle protagoniste degli stornelli erano le vittime di quello che ancora non si chiamava “femminicidio” ma che era di una attualità sconcertante: la “povera moglie buttata nel Tevere”; “Marietta Bella, ammazzata a vicolo Sora”; la “monica ammazzata a Ponte Sisto” ecc.
Non perdonava niente alla politica, alla guerra e agli affaristi.
Di Cecco Peppe diceva: “… a la fine der conflitto / lui sarà bello che fritto! / S’ariccomanna, / che vò venì a cantà cor Sor Capanna!
Del Generale Cadorna cantava: “… ha scritto a la Reggina: / si vòi vedé Trieste, compra ‘na cartolina.”
Dei lavori pubblici: “… er Palazzaccio se ne casca”; dei Muraglioni: “… sò de ricotta…; del Traforo: “… a noi romani / er Governo cià fatto un ber traforo.”
Della cooptazione delle donne per mancanza di uomini durante la prima guerra mondiale: “Si cerchi in tutta Roma, / nun trovi ‘na puttana / l’ha requisite tutte la Società Romana.”
Del ritardo politico-puritano nell’inaugurazione della fontana delle Najadi a piazza Esedra: “C’è a Piazza dell’Esedra un funtanone / co quattro donne ignude a pecorone, / ce sta immezzo un omo ardito / che je serve da marito:/ cor pesce in mano / je schizza a tutte quante er deretano!”
Non sfuggiva nessuno alla sua satira graffiante: i “borsari neri”, gli accaparratori, i bagarini, i commercianti senza scrupoli, che affamarono l’Italia durante la guerra: “… Certo che sti sventurati / annerebbero ajutati / a ‘sta maniera: / ergastolo o trent’anni de galera!”
Oppure: “…quer che costava ‘na catena d’oro / se spenne mo pe un chilo de capretto: / si er sugo lo vòi fà cor pommidoro / prima te vennerai er commò cor letto!”
I suoi versi utilizzavano ogni notizia: nel 1908, per settimane, apparsero sui muri di Roma cartelloni pubblicitari con scritto “Delagrange volerà!” preannunciando il tentativo del francese di volare in Piazza d’Armi. Così il Sor Capanna descrive l’accaduto: “ ‘Sto fregno c’è venuto da la Francia / pe buggiarà li sòrdi a noi romani: / diceva de volà com’un ucello / invece zompettava er sartarello. / C’è ita a Piazza d’Armi tanta gente / pe vede un volo… e nun ha visto gnente. / Chi cor tranve, chi cor legno / pe vedé volà ‘sto fregno… / Co tanta boria / s’arzò quanto ‘na pianta de cicoria!”
Ironizzò sulla boxe: “La bozze, sì, è ‘no sporte preferito, / in tutto er monno trovi li campioni. / A forza de dà botte è stabbilito / che chi ne dà deppiù fa li mijoni. / Mentre io, si sarvognuno / do un cazzotto a quarcheduno / pe premiazzione / me danno un par de mesi de priggione!”
E in prigione ci andò veramente; una volta. Aveva satireggiato su un personaggio del Governo e la polizia non glielo perdonò. Una volta uscito, si paragonò ad Andrea Costa imprigionato anche lui per un reato politico!
Gli era stata concessa dalla Questura la “patente di cantastorie autorizzato”. Ma l’autorizzazione era relativa solo alla periferia di Roma: non si poteva esibire nel Centro. Ovviamente, motivi di mera sopravvivenza lo portavano a valicare i limiti, e allora i questurini sequestravano la chitarra e imponevano l’allontanamento.
Subì la violenta reazione di un oste, offeso dai suoi stornelli: gli buttò addosso una pila d’acqua bollente causando varie scottature che non impedirono l’esibizione dei giorni seguenti. Aveva la pelle dura ed era “tignoso”: un vero romano!
I nobili lo assumevano per divertire gli ospiti, nel giorno della loro “caccia alla volpe”, o in occasione di feste di famiglia: lo stornello verso un appartenente alla famiglia era garantito: non risparmiava nessuno.
Nel 1913 un amico lo fece conoscere a Petrolini che si esibiva nella Sala Umberto a via della Mercede: il grande Ettore lo salutò chiamandolo “il mio maestro” e organizzò una macchietta-imitazione in cui i due entravano contemporaneamente sul palcoscenico e cantavano gli stornelli: il pubblico era indeciso su quale fosse l’originale! Fu un grande successo per entrambi.
Petrolini incise una parte della sua imitazione con questo titolo: “Er Sor Capanna. Imitazione di un cantante ambulante romano. Dal Vero. Musica di Petrolini, parole di Ettore, cantata da lui medesimo. L’autore assiste alla rappresentazione”.
Petrolini vendette molti dischi con ottimi ricavi e continuò a imitare Sor Capanna che una sera, spettatore di Ettore, fu chiamato sul palco dal grande artista che nel frattempo aveva cambiato il suo travestimento col solito frak. Capanna, dopo essersi esibito tra gli applausi, volle dire qualcosa sul suo “allievo”: “Ettore è un bravo regazzo, un mio imitatore. Lui fa li bijetti da mille e se li gioca, io faccio li sordarelli e me li magno!”
Beniamino Gigli, dopo aver ascoltato il Sor Capanna dentro un’osteria, lo applaudì e prese il piattino delle offerte dove mise un biglietto da cento lire (di allora!) e proseguì la raccolta tra i tavoli, personalmente.
Quando parlava di D’Annunzio, che aveva conosciuto personalmente, Sor Capanna diceva: “ A Gabriele je piaceno li stornelli mia: è uno che capisce!”
Il suo spirito sarcastico tipicamente romano, lo portò a esclamare la sua ultima battuta persino sul letto di morte: era stato ricoverato nell’ottobre del 1921 dopo che si era sentito male durante un suo “concerto” e quando un frate si avvicinò al suo letto, toccandosi i coglioni esclamò: “A zì fra’, e mica è ora, sa? Te ne pòi pure annà!” Morì due giorni dopo.
Un romano “de grinza”!

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