IL CARNEVALE A ROMA

A proposito del carnevale a Roma, ci sono molte notizie e documentazioni certe: una di queste è relativa al “Gran Tour”. Tutti gli stranieri che venivano in Italia facevano in modo di inserire una sosta a Roma per vedere e partecipare alla festa; in quel periodo i festeggiamenti a Roma erano i più spettacolari e coinvolgenti d’Europa; il Carnevale era veramente una “festa di popolo”.
Altre cose rimangono incerte: l’etimologia stessa del nome; il periodo storico della regolamentazione; la “cristianizzazione” della festa.
Partiamo dal nome. L’etimologia considera alcune varianti su una radice comune: “carnem” (carne).
Una strada parte da “carnem-levare”, ovvero un periodo
che preannuncia le privazioni quaresimali.
Un’altra da “carnem-valere”, che sembra il contrario della precedente ma identifica nei festeggiamenti il mangiare la carne, che già viene consumata pochissimo e da pochissimi durante l’anno e che nei successivi 40 giorni viene assolutamente vietata.
Molto simile è l’etimologia medievale: “carnem-scialare”. Anche qui, il periodo “carnascialesco” viene identificato con la possibilità (e la voglia) di mangiare in abbondanza un cibo che durante il resto dell’anno brilla per la sua mancanza.
Del resto, se è vero (e anche qui ci sono forti dubbi) che il Carnevale può essere l’evoluzione dell’antica festa romana dei Saturnali, il sovvertimento ritualizzato dei ruoli agognato dai poveri e accettato dai ricchi prevede anche un ribaltamento delle abitudini alimentari. In quei giorni il povero vestito da ricco si concedeva la “carnem” che il ricco vestito da povero gli negava durante l’anno.
La necessità di invertire l’ordine in funzione liberatoria, si è prima scontrata poi adeguata alla necessità tutta cristiana del pentimento, della privazione, della contrizione. Il Carnevale si stabilizza come momento di follia, di peccato, che esalta per contrasto il successivo periodo quaresimale.
Il momento del peccato si oppone al momento della penitenza, come le due maschere principali si oppongono tra loro: il grasso Carnevale contro la brutta e vecchia Quaresima.
Così come il peccato veniva esaltato, concedendo una libertà insolita come quella di cui le donne si appropriavano evitando i mariti e gli amanti almeno durante il giorno, cercando il contatto fisico (moltissime volte… molto approfondito), con chiunque volessero; così si esaltava l’espiazione: si approfittava del momento di festa per “fare giustizia”.
Il martedì grasso era il culmine della festa e l’occasione per dimostrare quanto il potere avesse bisogno di dimostrare la sua forza, fissando per quel giorno le esecuzioni dei condannati a morte.
Un monito ai mascherati, che il giorno dopo sarebbero ritornati sudditi.
La storia, se prendiamo per buona quella della trasformazione dei Saturnali in Carnevale, ci dice che la ritualizzazione della trasgressione si è adeguata ed è proseguita nei secoli, fino a oggi in cui il Carnevale prosegue con espressioni plateali che fanno rivivere la festa “popolare” (Rio de Janeiro); o con esibizioni vanesie fortemente caratterizzate da gusti sessuali “particolari” (Venezia); o con altre manifestazioni di abilità artistica nella costruzione di opere a carattere umoristico (Viareggio), che pur coinvolgendo le masse, non sono più “popolari”.
Oggi, non c’è più la necessità e la voglia né di sovvertire l’ordine, né di libertà sessuale: oggi il Carnevale è limitato alla “necessità” di far divertire i bambini, senza neanche impegnarsi per fargli capire il perché. Possiamo dire che il Carnevale è morto, o, comunque di lui non si sente il bisogno.
Vediamo come è andata.
Nel medioevo a Roma, si festeggiava soltanto in due giorni: la domenica e il giovedì successivo.
Anche i luoghi erano due e sempre quelli: domenica a Testaccio, giovedì in Agone (Piazza Navona).
Il Carnevale iniziava con un corteo: era l’occasione per dimostrare e far conoscere chi fosse a detenere il potere. Il papa si muoveva dal Laterano (la Cattedrale di Roma) per andare a Testaccio: era seguito dal Senatore (simulacro del governo comunale), dai rappresentanti delle corporazioni, dai cittadini più illustri, dai capo-rioni e dai giocatori: giovani rappresentanti dei rioni, designati a giostrare per loro conto.
Il prato intorno al Monte dei Cocci era addobbato con bandiere e festoni: veniva chiuso ai quattro lati da baracche e padiglioni. I palchi appositamente costruiti, erano occupati dalla nobiltà e dal clero. Il popolo era, come al solito, ai margini.
Le “giostre” prevedevano carri con animali che scendendo a “rotta de collo” dal monte, venivano presi d’assalto dai giostratori che cercavano in ogni modo di accaparrarsi le bestie che sarebbero state poi cucinate e mangiate nel rione di appartenenza.
Il gioco in Agone, fino al 1466 quando Paolo II trasferì tutto in via Lata (vicino… casa), aveva il suo culmine nella
derisione e nel sacrificio degli ebrei. Una sorta di persecuzione ritualizzata.
Venivano prima fatti correre i bambini, coperti di insulti e di palle di fango (e… altro) che venivano lanciate, poi veniva “offerto” al Senatore, dagli anziani ebrei, il più vecchio della comunità: il poveraccio era messo in una botte piena di chiodi e spinta giù dal Campidoglio.
In un impeto di umanità, o forse meglio, in momento di necessità economica, i romani proposero al papa di sopprimere il sacrificio del vecchio per sostituirlo con un pagamento in denaro. Servivano soldi per pagare i giochi e i pallii. Così, i vecchi ebrei non furono più messi nella botte, ma costretti ad una corsa a piedi, completamente nudi, per tutta la lunghezza della via Lata, che da allora si chiamò “Corso”.
Clemente IX nel 1668 abolì la corsa sostituendola con un atto formale (e sostanziale, visto che si trattava sempre di un… pagamento) che prevedeva la sottomissione di tutta la comunità ebraica al governo, sotto forma di un calcio nel sedere al rabbino capo da parte del Senatore.
Il popolo del ghetto si comprava la libertà di esistere per un altro anno fino al Carnevale successivo.
Verso la fine del ‘700 il Carnevale al Corso si evolve e si assiste alla popolarizzazione della festa: il “sogno dei poveri”.
Anche gli indigenti riescono a mascherarsi: bastano foglie di insalata cucite addosso per sentirsi “diversi dal solito”.
Per tutto l’anno si risparmia in funzione del Carnevale: i soldi vengono spesi in costumi, palchi, sedie al Corso, ma soprattutto in grandi mangiate.
L’economia della città, fatta soprattutto di introiti legati al turismo, risente pesantemente dei decreti che limitano o addirittura annullano il Carnevale.
Quando un papa negava al popolo la possibilità di divertirsi, gli negava anche la possibilità di guadagno. Non fabbricare moccoletti, confetti, maschere, o non affittare sedie, camere, costumi, equivaleva alla perdita irreparabile di guadagni per migliaia di persone.
Per fortuna i casi di sospensione o soppressione erano pochi, ma bastava qualche sospetto di “moti rivoluzionari” più o meno frutto di informazioni distorte o interessate, per far diventare il Carnevale un momento di terrore per il papa e di angoscia per i sudditi costretti ad astenersi.
Normalmente la festa c’era e cominciava così: il corteo del Senatore sfila nel Corso facendosi largo tra la folla mascherata e le innumerevoli carrozze, per dare inizio ai festeggiamenti.
Tutti i giorni ci sono le “corse dei barberi”: cavalli lanciati al galoppo da Piazza del Popolo a quella che poi sarà Piazza Venezia, ma che era chiamata “Piazza della Ripresa de’ Barberi”.
I cavalli scossi erano bardati coi colori del proprietario (i soliti nobili che si disputavano il palio tra di loro), venivano portati alla “mossa” in Piazza del Popolo, dove erano piazzati i palchi. Gli venivano applicate sui finimenti delle palle di metallo irte di chiodi pungenti: durante la corsa sbattevano sul dorso provocando l’irritazione della bestia, già eccitata dal “beverone” propinato (un misto di essenze, frutta, uova e pepe… tanto pepe!), che si lanciava a un galoppo sfrenato. Impacchi di pepe sui genitali fornivano ulteriore motivo di “spinta” agli animali.
Grossi e pesanti teloni tesi da una parte all’altra della Ripresa, aiutavano i barbareschi a fermare e calmare i cavalli.
L’ultimo giorno era il più atteso: all’imbrunire tutta Roma si riversava nel Corso con il proprio “moccoletto”: da quel momento e per tutta la notte ognuno cercava si spegnere il moccolo a qualcuno. Ancora oggi, il “moccolo” identifica sia azioni sessuali (reggere il moccolo), che di morte (i moccoli dei morti) che di infrazioni religiose (tirare un moccolo).
Il Corso si illuminava a giorno con migliaia di lumi: uno spettacolo incredibile, visto che normalmente di sera la città piombava nel buio assoluto.
Oltre alla grande quantità di moccoletti, ogni balcone, ogni finestra, ogni carrozza era illuminata rendendo tutta la via splendente, abbagliante, ammaliante, sconvolgente.
Più che dalla vista di un ambiente insolito, tutti erano affascinati e coinvolti dall’atmosfera eccitata e libertina dei partecipanti: un moderno “sabba” dove era permesso tutto, in funzione del divertimento parossistico.
Tra un lancio di “confetti” (palline di gesso che si frantumavano quando colpivano) e un ossessivo viavai di pedoni mascherati e carrozze scoperte piene di gente, si consumavano le ultime ore di festa.
La cenere del mercoledì avrebbe rimesso tutto “a posto”.
L’atmosfera del Carnevale era la vera protagonista di quella speciale follia collettiva.
Personaggi di cultura, membri della nobiltà, del clero; romani, italiani, stranieri, si lasciavano contaminare da un’epidemia tanto violenta quanto breve: in pochi giorni si poteva e si doveva fare quello che durante l’anno era impensabile.
Ve li immaginate D’Azeglio, Paganini e Rossini travestiti da poveri ciechi a strimpellare la chitarra agli angoli e chiedere in trio l’elemosina per ricevere confetti e risate? O Goethe mascherato a spegnere moccoletti? Dickens, Gregorovius, Grimm, James, Andersen, frequentare tanto i teatri dove venivano svolte feste da ballo, che assistere divertiti alla corsa dei barberi?
Tutti festeggiavano, tutti partecipavano: ecco perché la totale assenza di regole e di titoli era veramente trasformata in una festa “di popolo”.
Ma come tutte le cose belle, anche il Carnevale finisce.
Dopo la presa di Roma, l’occupazione piemontese tentò qualche modifica (corsa di bighe anziché di barberi) per poi lasciar morire una delle tradizioni più durature e più partecipate di Europa.
Il “morammazzato” che si urlava spegnendo i moccoletti, si trasformò nell’ultimo rantolo del Carnevale.

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