IL PONTE CON LE ALI

Quando l’architetto Demetriano, su incarico di Adriano cominciò il ponte che collegava il mausoleo dell’imperatore alla riva sinistra del Tevere, a Roma c’erano già sette ponti: Sublicio (il più antico, rifatto più volte); Milvio (fuori città); Emilio Lepido (poi Ponte Rotto); Fabricio (poi Quattro Capi) e Cestio sull’isola; Agrippa (poi Ponte Sisto); Neroniano (da Campo Marzio al Vaticano, oggi scomparso).
A Roma, quella di “Pontifex” era la carica più alta: solo il migliore dei romani poteva essere “colui che costruisce i ponti”. Il ponte costituiva il passaggio, la comunicazione con l’aldilà, nel senso letterale della parola.
All’inizio il re, poi il Pontifex Maximus, poi l’imperatore, poi il papa Pontifex anche lui. Ma anche i grandi generali furono pontefici: pensiamo al ponte sul Reno fatto costruire da Cesare in pochi mesi e con mezzi di fortuna; o al ponte sul Danubio costruito da Traiano (su progetto di Apollodoro, quello del foro e dei mercati), che per mille anni è stato il più lungo del mondo!
I romani, i ponti li sapevano fare bene!
Come si faceva un ponte?
Una volta individuato il posto, che doveva essere il più lontano possibile da rapide o strettoie, si piazzavano le macchine “battipali” dove dovevano essere fondati i piloni. Le battipali erano nient’altro che palizzate a pianta triangolare, con il vertice rivolto verso monte; venivano rivestite di pelli e pece per bloccare le infiltrazioni della corrente, poi si procedeva ad asciugare il più possibile l’alveo all’interno del triangolo; dopo, si piantavano i pali: una grossa pietra veniva sollevata lungo un piano molto inclinato, poi si mollavano le corde e la pietra scivolava velocemente sulla testa di un palo che si conficcava nel fango; una volta conficcati i pali che formavano un rettangolo anch’esso chiuso all’acqua, si fissavano sul fondo grosse pietre legate dal famoso “calcestruzzo” (che induriva anche sott’acqua) con cui si costruivano i piloni. Si passava poi a installare tutte le carpenterie di legno che servivano a impostare e realizzare gli archi di pietra che avrebbero costituito i sostegni per la strada. L’arco era la maggiore genialità dell’architettura romana: la soluzione migliore per sostenere ogni costruzione.
Demetriano impiega 13 anni (121-134) a costruire il ponte Aelius. Era lungo circa 90m. poggiato su 4 piloni, con tre grandi archi centrali oltre ad alcuni più piccoli: 2 a destra e 3 a sinistra. Le rampe di accesso erano sugli archetti laterali, che “entravano in funzione” solo in occasione di aumento di livello del fiume. Era largo 10,95m. con una strada centrale di 4,75m. e due marciapiedi molto rialzati di 3,10m ciascuno. Le balaustre erano ovviamente di Travertino e cingevano i parapetti per 1,32m. L’unico ponte a Roma che non ha mai avuto bisogno di interventi per rimanere in piedi da 2000 anni. Salvo rimaneggiamenti e adattamenti che non hanno interessato né i piloni, né gli archi centrali.
Aureliano nel 270-274 costruisce la cinta muraria che ancora cinge Roma. Fortifica il mausoleo incorporandolo nel sistema difensivo: lo circonda con mura e torri. Il ponte cambia nome col cristianesimo: diventa ponte S. Pietro perché una delle due porte che lo chiudeva, conduceva alla tomba dell’Apostolo.
Con Teodorico, il mausoleo diventa un castello-prigione e durante tutto il medioevo è al centro di scontri tra fazioni.
Jacopo da Varagine, nella sua Leggenda Aurea (vera e propria leggenda, ma a cui fu attribuito valore storico per secoli) descrive il motivo per cui il castello-prigione di Teodorico diventa Castel S. Angelo: la pestilenza, la processione di papa Gregorio, l’angelo che rinfodera la spada.
Pare che in occasione di un’altra peste (questa, vera e documentata) nel 1348 (dopo il terremoto che danneggiò Roma) un’altra processione vide addirittura la statua dell’arcangelo Michele inchinarsi più volte.
Bonifacio VIII per il primo Giubileo fa sistemare la viabilità intorno e sul ponte: al centro una fila di botteghe in legno, che dividevano le due carreggiate realizzate sul ponte. Dante osservò come la moltitudine di pellegrini che attraversavano il ponte, lo facesse con grande ordine e rapidamente.
Verso la metà del 1400, Ponte S.Angelo, come già si chiamava, era chiuso da porte: ne aveva addirittura tre. Oltre alle due solite di ogni ponte, alle due testate, ne aveva anche una centrale di bronzo ricavata nella torre che bloccava a metà la strada.
Del resto, il ponte faceva parte delle fortificazioni della città leonina e doveva essere attrezzato per resistere agli attacchi.
Con le tante inondazioni, pur rimanendo solido a contrastare la corrente, il ponte subì danni alle sovrastrutture e rimase abbandonato senza manutenzioni.
Durante il giubileo del 1450, mentre una gran folla si accalcava sul ponte, crollarono i parapetti e: “… fu tamanta la infrontaglia… che ce moriero cento settantadue anime, che tutti furo affocati dalla folla… e moriero quattro cavalli et una mula, e tutti stavano in terra morti, e tuttavia ce ne cascava più. Sentenno noi che ce moria tanta gente chiamammo lo caporione de Ponte… e con tanti altri cittadini et annammone in nello luoco e fu dato ordine collo castellano de Castiello che serrasse la porta dello brunzo acciocché non ce entrasse più persona nello ponte…”
L’allora papa Nicolò V Colonna si adoperò per sistemare il ponte e fece costruire due piccole cappelle sulla riva sinistra, a ricordo di quanti morirono nell’incidente. Dette anche incarico a L.B. Alberti di coprire il ponte “a uso di loggia per difesa del sole né tempi di state e dalle piogge e da venti l’inverno…” La descrizione che ne fa il Filarete corrisponde esattamente alle parole dell’Alberti, ma non è detto sia vera:“… il ponte di Adriano tra i ponti provvisti di tetti, è il più straordinario di tutti… un tetto sorretto da quarantadue colonne di marmo, con travature, copertura di bronzo, mirabilmente ornato…”. Non ci sono testimonianze certe che la copertura fu realizzata. Sicuramente Nicolò fece demolire le porte che erano alle testate del ponte e ne fa costruire una sotto Castello, con ai lati due torri quadrate connesse alle mura della fortezza che andarono a ostruire i due archetti laterali di destra, creando impedimento alla corrente. Sulla riva sinistra, dove erano le due cappelle, furono abbattute case per realizzare una piazza che facesse da ingresso al ponte. Era nata la Piazza di Ponte, luogo destinato poi a essere teatro di esecuzioni di vario tipo, per secoli.
Alessandro VI il fiammingo, nel fortificare ancora Castello fece buttare giù le torri accanto alla porta ricavando un largo spazio dove fece realizzare un torrione a protezione della fortezza.
Stesso lavoro di sbancamento sulla riva sinistra, una trentina di anni dopo: Clemente VII Medici abbatte le due cappelle liberando gli archetti per dare sfogo alla corrente. Con l’occasione, al posto delle cappelle furono erette due statue: S. Pietro (di Pietro Lorenzetto) e S. Paolo (di Paolo Romano). Era il 1534.
Nel 1536 Carlo V entrava a Roma per chiedere perdono del sacco. Con l’occasione, Paolo III Farnese fece realizzare archi trionfali posticci e statue di stucco (la storia si ripeterà con un altro tedesco, 400 anni dopo…).
Lo stesso Lorenzetto insieme a Raffaello da Montelupo modellano otto statue che vengono appoggiate sui pilastri delle balaustre: sono i 4 Evangelisti e i 4 Patriarchi: Adamo, Noè, Abramo e Mosè.
Una delle pochissime cose buone che fece Paolo IV Carafa, fu quella di abbattere il muro fortificato dalla parte di Castello: la corrente riebbe (ma solo in parte) il suo spazio. I lavori previsti e diretti da Silvestro Peruzzi per l’ammodernamento e abbellimento del torrione, non si portarono avanti: le finanze destinate furono dirottate nella guerra contro la Spagna, voluta dal pontefice.
Passa un altro secolo e un altro pontefice fa una cosa buona: fa abbattere il torrione, le mura addossate al Castello e riapre le arcate di destra per agevolare il deflusso delle piene. A ricordo di questa opera, Urbano fa realizzare una epigrafe (attualmente dentro al castello): “Urbano VIII fece abbattere la inutile torre qui eretta anticamente, quasi sbarramento, che ostacolava il fluire delle acque. Tale demolizione rende maggiormente munita la fortezza e agevola le piene eccessive. Volle che fosse scolpita questa lapide affinché i posteri non abbiano poi a decidere costruzioni contrarie. Anno 1628”
Clemente IX Rospigliosi incarica Bernini di realizzare 8 statue: documenti contabili attestano l’ordine di “otto pezzi di marmo statuali” (che poi diventano dieci) da destinare allo scultore.
Il tema doveva essere la “via Crucis”, che in quegli anni riprendeva vitalità, dopo il periodo medievale francescano.
Bernini fa installare due grandi pilastri sulla testata di Castello, fa rifare i parapetti sostituendo le lastre di travertino con balaustre a grate per far passare lo sguardo verso il fiume e verso la basilica. Affida ad artisti che conosceva personalmente la realizzazione delle statue di cui fornisce disegni e bozzetti: l’opera doveva assumere un’unica caratteristica di stile. Lui stesso scolpisce due angeli: Regnavit a ligno Deus e In aerumna meam dum configitur spina. Anche se dai pagamenti risulta che l’autore a cui andarono i soldi sia stato il figlio Paolo Valentino, la statua è talmente bella e somigliante all’altro angelo, che nessuno ha mai messo in dubbio che il vero autore fosse Giovanni Lorenzo.
Carlo Cartari, contemporaneo ed amico di Bernini racconta che: “… il Cavaliero lavora un Angelo da collocarsi in uno de piedistalli sopra il Ponte, et un altro ne lavora un suo figliolo il quale, benché operi assai bene, si dubita che, morto il padre, vorrà vivere delle comodità che egli lascia, ed abbandonar la fatica…”
Clemente stesso va a vedere le statue che si stavano realizzando nello studio di Bernini ad opera del Cavaliere e dei suoi allievi e colleghi, e si innamora dei due angeli di mano del maestro: quello col titolo e quello con la corona di spine. Ovviamente li vuole per il Cardinal Nipote, non per se: sarebbe troppo sfacciato. Bernini li fa portare nel palazzo del cardinale e ne realizza altri due uguali. Quello con il titolo, lo scolpisce assieme a Giulio Cartari (il figlio del cronista) e quello con la corona di spine con Paolo Naldini. Anni dopo, il nipote Prospero Bernini si riappropria di quelli dati a Rospigliosi e li regala alla chiesa di S. Andrea delle fratte.
Dai disegni si deduce che Bernini, dopo una prima idea classica, si indirizza su motivi più personali che mettono in mostra la sua genialità. I disegni dicono anche che la posizione degli angeli doveva essere a coppia, mentre poi furono gestiti come singoli soggetti a sé stanti, inseriti in un’unica scenografia ispirata alla Passione. Ognuno di essi porta uno degli strumenti della Passione stessa, ma con diverso atteggiamento, volto, panneggio e posizione. Sotto ogni figura, una iscrizione descrive lo strumento portato da ogni angelo. Sotto i piedistalli dei due verso Castello, fu scolpito lo stemma di Clemente; sotto i due verso Ponte, quello di Leone X. Gli angeli di Bernini furono messi sul ponte nel 1668-69.
Vediamoli, questi angeli:
dopo S. Paolo, verso Castello, il primo è “Tronus… di Antonio Raggi, già allievo di Algardi, poi di Bernini, poi grande scultore in proprio. Innalzato nel 1670
Il secondo è “In flagella…” di Lazzaro Morelli, allievo di Algardi e di Bernini. Innalzato nel 1669
Il terzo è: “In aerumna…” di Paolo Naldini ed è una copia di quello originale di Bernini che si trova a S. Andrea. Innalzato nel 1671
Il quarto è “ Respice faciem…” di Cosimo Fancelli, prima allievo di Bernini poi collaboratore di Pietro da Cortona. Innalzato nel 1670
Il quinto è “Super vestem…” anche questo di Paolo Naldini. Innalzato nel 1669
Il sesto è: “Aspiciam ad me…” di Gerolamo Lucenti, allievo di Algardi e Bernini. Innalzato nel 1669
Il settimo è: “Cuius principatus…” di Ercole Ferrara, allievo giovanissimno di Bernini. Innalzato nel 1670
L’ottavo è: “Regnavit a ligno…” di Giulio Cartari, a copia dell’originale di Bernini dato al Rospigliosi. O originale di Bernini attribuito a Cartari? Innalzato nel 1669
Il nono è: “ Potaverunt me…” di Antonio Giorgetti, allievo di Algardi, poi Maestro presso il cardinale Francesco Barberini. Innalzato nel 1669
Il decimo è: “ Vulnerasti…” di Domenico Guidi, napoletano allievo di Algardi. Innalzato nel 1669
La decorazione del ponte terminò nel 1772
Esattamente 200 anni dopo, i piemontesi decidono la costruzione dei muraglioni.
Il ponte subì un’ennesima trasformazione delle testate: vennero rimosse le statue per poter essere riposizionate a fine lavori; armati gli archi per permettere lo sbancamento delle testate.
Durante gli sbancamenti, emerse l’antico piano stradale del tempo di Adriano e l’ultimo arco di destra interrato di cui non si conosceva neanche l’esistenza.
I lavori finirono nel 1903 e il ponte fu realizzato con 5 grandi archi tutti uguali e con una lunghezza di 100m. come tutti i ponti condizionati dalla larghezza prestabilita dell’alveo di Fiume.
È comunque il ponte più bello di Roma… e quindi del mondo!
Maurizio Marcelli

Ecco come lo descrive uno dei più grandi poeti romani: Mario Dell’Arco.

Ponte dell’Angeli

È cascato pe sbajo sopra ar Tevere.
Appollo a la spalletta
l’angeli de vedetta
e de guardia a l’imbocco:
San Pietro co la chiave,
San Paolo co lo stocco.

Sotto ar sole san Pietro corre er rischio
de scottasse la coccia
e a la fine se scoccia:
un soffio ne la chiave e manna un fischio.
Qui san Paolo deciso
taja la corda all’ancora
e l’angeli ar segnale apreno l’ale
e riporteno er ponte in paradiso.

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