Spigolature accenti

Nel romanesco, gli accenti sono usati oltreché nelle parole che lo richiedono anche in italiano (es: è o perché) non avendo “traduzione” dialettale, anche per “artifici grafici” destinati a facilitare la lettura.
Un discorso a parte va fatto sull’ infinito dei verbi dove l’accento cade sull’ultima vocale (es. fà, annà, dormì, sapé ecc) per cui il romanesco non pone l’apostrofo ma soltanto l’accento (grave o acuto: fà, sapé) in quanto non si tratta di troncatura di una parola più lunga “spezzata” (segnalata dall’apostrofo) ma di una parola (nel caso, di un verbo) nato (o, meglio, selezionato) dal dialetto stesso così come è scritto e pronunciato: non esiste il verbo “fare” troncato in fa’, ma soltanto il verbo “fà”.
Nello scrivere in dialetto l’artificio grafico più usato è quello che ci consente di capire, e quindi di pronunciare meglio, la parola a cui è stata tolta una o più lettere. Questo uso è valido quando la parola si può confondere con un’altra che abbia la stessa grafia, ma diverso significato.
La pratica ci insegna che normalmente l’accento da usare è sempre o quasi, quello grave. Per cui non si accenterà con l’accento acuto la parola dove non è stata tolta la lettera (che si potrebbe differenziare anche in questo modo dalla sua “gemella”), ma si preferirà accentare col grave la parola “amputata”.
Facciamo qualche esempio:
scòla (scuola senza u) e scola (voce del verbo scolà)
còre (cuore senza u) e core (voce del verbo core)
Adesso qualche precisazione:
bono (buono senza u) non si accenta, perché non c’è nel romanesco un altro “bono” con diverso significato.
sò (voce del verbo èsse) e so (voce del verbo sapé); soltanto per chiarezza, visto che l’accento è lo stesso;
esse (verbo)non è accentato perché la gemella esse (pronome) in romanesco non esiste (perché si dice “loro”).

Per ogni altro esempio/problema: leggiamo come hanno scritto “i grandi” e impariamo da loro.

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