I verbi

Parliamo di verbi

Proviamo a ripassare un po’ quelle che sono le poche ma chiare regole dello scrivere romanesco.
Un conto è parlare, un conto è scrivere.
Prendiamo in esame il verbo “avere”.
Tanto per iniziare, a Roma non si usa il verbo “avere” ma il verbo “avé”, con l’accento sulla é, come quello di “perché”. Non si usa l’apostrofo, ma l’accento “acuto” (che è il contrario dell’accento “grave”, quello di “sarà”, “farò” “è”): l’apostrofo si usa quando una parola viene troncata (elisione).
Siccome nessun romano ( o meglio: romanesco) dirà mai (e ha mai detto o scritto) “avere”, il dialetto ha selezionato il verbo “avé”, e basta: non è un “avere” troncato, è proprio e soltanto “avé”, quindi non una parola la cui troncatura è sostituita dall’apostrofo, ma una parola nata così (apocope).
Per essere più precisi, nel parlato (e nello scritto) comune l’uso del verbo “avé” è quasi completamente soppiantato dal verbo “avecce”, usato come sottolineatura di possesso.
Adesso viene il bello: in italiano la coniugazione del verbo “averci” (corrispondente ad “avecce”) si declina: “ci ho”, “ci hai” “ci ha” ecc.
In romanesco le cose cambiano.
Quindi, come si declina il verbo “avecce”?
Qui si vede se chi scrive ha anche letto. Letto qualche poesia (o prosa) di autori classici: da Belli, a Pascarella, a Trilussa, a Marè, a Dell’Arco, a Roberti ( a proposito, li conoscete gli ultimi tre?): sono loro, quelli che fanno testo (oltre ai contemporanei, che è troppo lungo citare...).
Sono i grandi maestri a cui rifarsi, non solo per i versi ma anche per la grammatica, l’ortografia, la sintassi ecc.
Da loro abbiamo appreso che la declinazione del verbo “avecce”, si scrive così:
io ciò
tu ciai
lui (o lei) cià
noi ciavemo
voi ciavete
loro cianno

Questo è!
Solo questa è la forma ortografica corretta!
Tutto il resto è “sbajato”.
Senza appello.
Quindi, chi non lo ha ancora fatto si corregga.
Pensiamo a tutti quelli che scrivono “c’hai” al posto di ciai: come scriverebbero la contrazione romanesca di “che hai”? La forma "ch'hai" non è accettabile, considerato che due "h" di seguito, non esistono né in romanesco, né in italiano, né in nessun'altra lingua!
C'è stato un periodo, ai primi del '900, in cui alcuni poeti (anche "grandi"), spinti da una italianizzazione a tutti i costi, hanno usato artifici vari per rendere il suono e il significato. Ad esempio hanno usato "ci ho" al posto di "ciò": è durato pochissimo, perché la prevista unione delle sillabe "ci" e "ho" non si poteva (e doveva!) interpretare in "ciò"! Altrettanto per "ch'ho" (che ho): le due h incompatibili sono scomparse subito, lasciando il posto alla forma corretta "c'ho".
Quindi, le uniche due forme corrette oggi (da sempre) sono: "ciò" (per "ci ho") e "c'ho" (per "che ho"). Chiaro?

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