STORIE (VERE) DI POETI E CONCORSI
Cari romaneschi, ci vogliamo soffermare su alcune considerazioni che vengono dall’osservazione, ormai ultraquarantennale, di un mondo semisommerso come un iceberg da cui ogni tanto spuntano in superficie alcuni personaggi che meritano appena una piccola riflessione, in quanto spinti in alto dalla loro presunzione poggiata sul niente che li fa galleggiare.
Il mondo della poesia è composito e stratificato: ne vogliamo illustrare solo alcuni elementi che contribuiscono a farne un universo di cose e persone particolari, che purtroppo molte volte non hanno le giuste basi per costruire un qualcosa di valido e condivisibile.
Partiamo dai poeti. Quelli conosciamo, e di quelli parliamo.
I poeti sono per antonomasia dei “sognatori”.
Si affidano alle idee, alle immagini, alle sensazioni, che cercano di trasmettere attraverso la loro sensibilità e la loro capacità tecnica, al lettore.
Molte volte questa comunicazione riesce a concretizzare un sogno: quello che fa il poeta quando immagina di riuscire a coinvolgere il lettore nella sua visione dei fatti, delle cose, della vita stessa. Il sogno di “comunicare” si realizza.
In questo caso, il poeta è (o diventa) bravo: l’apprezzamento nei suoi confronti non è limitato ad amici e parenti ma si allarga e viene condiviso dalle Giurie dei concorsi a cui partecipa, dagli editori (più o meno preparati e/o compiacenti) ma soprattutto dagli “addetti ai lavori” che a vario titolo contribuiscono a formare il mondo di cui stiamo parlando.
Il più delle volte, il sogno di cui sopra non si concretizza: allora lo si stravolge. Anziché sognare di essere compreso, il poeta cambia l’argomento dei suoi sogni: diventa lui il soggetto e il destinatario del sogno stesso. I suoi pensieri servono solo a farlo sognare “in proprio” il sogno più bello di tutti: diventare un “vate”. A quel punto, la spinta a diventare “il più bravo di tutti” è quella che muove e spinge il poeta a non smettere mai di sognare sé stesso. Le lodi sperticate di amici e parenti lo spingono sempre più in alto nella sua autoconsiderazione, finché… il palloncino si buca. Anzi, qualcuno lo buca: colui che, non essendo amico o parente, ma essendo un conoscitore del settore, fa notare al novello Dante alcuni particolari della sua poesia che non sono all’altezza dell’autoesaltazione di sé.
Allora, in quel momento, si riconoscono i poeti: ci sono quelli che inghiottono il boccone amaro e, guidati dalla giusta umiltà figlia dell’intelligenza, cercano di capire dove e come migliorarsi per fare tesoro della critica giustificata.
Ma la stragrande maggioranza degli “altri” poeti (di quelli che si dicono “poeta” da soli), davanti ad un parere appena negativo dato da chi può permettersi di darlo, reagiscono con la presunzione, che è sempre figlia dell’ignoranza. Ignorare non è una colpa, quando ci spinge alla conoscenza. Ignoranti si nasce, acculturati si diventa. Senza cultura, si rimane… ignoranti.
Ma per acquisire cultura, bisogna imparare tutte le cose che non si conoscono: che si “ignorano”, appunto. Questa “razza” di poeti è la più pericolosa: soprattutto per chi legge. Perché, il “poeta ignorante” (che ignora) insistendo nel suo atteggiamento di presunzione, continua, persevera, non molla alla ragione, finché… forse, vince qualcosa. Allora, è il dramma. Il dramma per il lettore, che continuerà a leggere gli svarioni e/o le banalità del “vate”; il dramma per la Poesia, che si vedrà assalita e vilipesa da colui “che sa scrivere” perché ha vinto un premio; il dramma per i concorsi poetici che se lo vedranno eterno partecipante con le solite boiate; il dramma (che in realtà è solo nelle intenzioni del poveraccio) per chi si era permesso di dare quel minimo di indicazioni per non fargli fare brutta figura con chi di poesia ne capisce. Prima o poi, ogni italiano vince qualcosa: una medaglia ha una forza incredibile.
Quando è il poeta ignorante (che ignora) a vincere, allora questa forza si moltiplica: il "vincitore" ha finalmente il "potere" per vendicarsi. La vendetta consiste normalmente in proclami ed invettive "contro". Contro chi non aveva capito di avere a che fare con un "vate"; contro chi non lo aveva premiato "prima"; contro chi si era addirittura permesso di criticare i suoi versi! L'autoesaltazione passa in secondo piano rispetto al veleno accumulato negli anni.
La forza di una medaglia. Data da chi? Per saperlo, andiamo avanti:
passiamo al secondo argomento che vogliamo sviscerare: i concorsi letterari. Quelli che conosciamo e di cui possiamo a ben ragione parlare.
In quarantacinque anni di esperienza e frequentazione a vari livelli (spettatori, concorrenti, giudici, presidenti di giuria, organizzatori) possiamo ormai dividere i concorsi in varie categorie: proviamo a illustrarne qualcuna.
Ricordiamo che ci interessiamo di poesia dialettale, e che solo di quella vogliamo parlare.
Ovviamente le cose di cui parliamo sono quelle che abbiamo conosciuto personalmente: non vogliamo generalizzare per non urtare la suscettibilità di chi si comporta diversamente da come descritto, ma le cose di cui parliamo le conosciamo bene per esperienza personale.
La nostra esperienza ci porta a considerare che ogni concorso è normalmente organizzato da una associazione culturale: con metodi, possibilità e finalità diverse.
Possiamo dividere i concorsi poetici in tre grosse categorie: vediamo.
I concorsi “che fanno guadagnare”: sono quelli che, preparati attraverso le amicizie, le frequentazioni, i bandi, i finanziamenti locali, gli sponsor, si assicurano una “protezione” economica che garantisce la copertura delle spese. Tutto lecito, normale, corretto, onesto e rendicontato.
A quel punto, si indice il concorso che attraverso i “diritti di segreteria” porta soldi all’organizzazione, che in questo modo (oltre a coprire i surplus di spesa, che ci sono sempre) si assicura un vantaggio economico: giustamente. Nessuno regala niente. Il vantaggio economico viene correttamente utilizzato per pareggiare i bilanci essendo normalmente le associazioni organizzatrici, senza fine di lucro.
Normalmente sono eventi megagalattici: vengono chiamati a far parte della Giuria: nomi altisonanti, stelle della cultura e dello spettacolo che assicurano visibilità e rassicurano i concorrenti sulla qualità del concorso. Il problema, molte volte, è che quelle Giurie… non giudicano.
Secondo le nostre esperienze, possiamo testimoniare che i “grossi nomi”, il più delle volte vengono chiamati solo a firmare il verbale, o al massimo a premiare poesie o libri… che non hanno letto. Ce lo vedete un personaggio pubblico, con tutti i suoi impegni e/o le sue tariffe orarie (sì, perché molte volte a questi signori vengono pagati “gettoni di presenza” o “rimborsi spese” per le loro “prestazioni culturali”) a leggere e valutare centinaia di poesie, di racconti, di libri? Ma quando mai! Tutto il lavoro viene svolto da coloro che veramente (e nemmeno sempre!) leggono, valutano, giudicano il materiale pervenuto: poi il “personaggio” si esibirà (nemmeno sempre) nel modo concordato con l’Organizzazione.
Data la normalmente grandissima partecipazione, questi tipi di concorsi prestano il fianco ad alcune considerazioni non sempre benevole: pensate ai concorsi dove sono accettati “tutti i dialetti d’Italia”. Una Giuria seria dovrebbe avere almeno venti “esperti” dei dialetti: uno per ogni regione! Ma quando mai! La regola, il più delle volte, è questa: siccome alle poesie dialettali deve essere allegata la traduzione in italiano, i Giurati leggono e valutano quella, e su quella esprimono il loro giudizio. Il voto viene dato alla traduzione, dimenticando più o meno volutamente che ogni dialetto ha le sue regole: grammaticali, ortografiche, sintattiche ecc. e che tutto lo sforzo, più o meno riuscito, del poeta nel trasferire le sue sensazioni, la sua sensibilità, la sua bravura tecnica, la musicalità delle parole, riesce vano e inutile: la poesia in dialetto viene messa da parte e tirata fuori al momento della premiazione, quando viene letta. Quale competenza potrebbe accampare una Giuria di Vattelappescadisopra su un dialetto pressoché incomprensibile, di un’altra zona geografica? Chi, dei membri della Giuria conosce il dialetto della città di Madidovesei?
Viene premiata la traduzione, se fatta bene. Questo fatto di "premiare le traduzioni", è valido per tutti i concorsi a cui si partecipa “fuori casa”.
Altro che “premio dialettale”!
I “concorsi per pareggiare”: sono quelli in cui le associazioni culturali “rischiano in proprio” e normalmente… ci rimettono.
Non avendo amicizie, frequentazioni, sovvenzioni, bandi pubblici, sponsor, le associazioni indicono il concorso contando sulla qualità (delle Giurie e delle poesie premiate), nella speranza di arrivare al pareggio economico. Lo scopo vero è quello di “farsi conoscere” il più possibile e diventare grandi, rispettati, affidabili, fino a riuscire a organizzare “concorsi per guadagnare”.
I diritti di segreteria servono, e normalmente non ci riescono, a coprire le spese cercando di pareggiare i conti.
In questo caso, proprio per garantire la qualità del prodotto e quindi la partecipazione, e quindi maggiori introiti, e quindi… il pareggio, i componenti dell’associazione si sottopongono alla fatica e all’impegno di valutare “tutte” le poesie in ogni loro componente: la “tecnica” e il “sentimento” di cui ogni opera d’arte è composta.
Ovviamente, i poeti “bravi” vincono spesso, mentre i poeti “ignoranti” (che ignorano) vengono giustamente emarginati.
Nelle Giurie non ci sono i “grossi nomi”, visto il loro costo; non ci sono “premiazioni megagalattiche”, vista la scarsità di fondi; non ci sono echi mediatici se non quelli, limitati, dei media gratuiti.
Ma il loro funzionamento è assicurato dall’affidabilità dimostrata dagli organizzatori che impiegano tutta la loro capacità ed esperienza nel giudicare e premiare chi merita.
Un’ultima categoria di concorso è quella dei “concorsi da pesca”, che a loro volta si suddividono in: quelli “da investimento” e quelli “da reclutamento”.
Li chiamiamo amichevolmente “da pesca” perché gli strumenti usati sono l’amo e la lenza, o la rete in caso di maggiori disponibilità economiche.
Il concorso “da investimento”, per quanto constatato personalmente e da cui escludiamo chi non conosciamo, viene indetto normalmente da case editrici che raccolgono un discreto numero di adesioni, promettendo (oltre ai premi canonici) la pubblicazione di testi ai vincitori: pur di vedere una propria poesia pubblicata su un libro “vero”, i concorrenti, attratti anche dalle bassissime quote dei diritti di segreteria, si lasciano “pescare”.
A quel punto esce fuori la vera “qualità” del concorso: i Giurati sono i proprietari o i funzionari della casa editrice o simile: a loro interessa solo la “quantità” di pagine da pubblicare. Perché dopo le eventuali pubblicazioni gratuite messe in palio e una volta “agganciato” l’autore, si presume che gli scrittori si affideranno per i prossimi libri a quell’editore e non ad altri.
Molte volte vincono i poeti “bravi”: è talmente facile riconoscere una buona poesia, che anche i peggiori Giurati non possono sbagliare.
Moltissime volte però, l’incompetenza (ad esempio: sulla “qualità” della scrittura dialettale: vedere sopra a proposito delle Giurie che devono giudicare dialetti che non conoscono) ha la meglio, vista la scarsa abilità media dei concorrenti. Così si premia anche chi “non sa scrivere” ma magari presenta una buona traduzione (vedi sopra…) e fa intuire una buona possibilità di prossime pubblicazioni (a pagamento) di opere più o meno valide ma sicuramente allettanti per un editore. La “pesca” è andata bene: avanti i prossimi.
L’altro tipo dei “concorsi da pesca” è quello “da reclutamento”: viene organizzato da associazioni… in cerca di soci.
Molte volte le associazioni che “campano di tessere associative”, cercano nuovi associati per sopravvivere. Come fanno? Possono anche indire un concorso che preveda come premio la tessera gratuita per un anno: l’investimento è in funzione del pagamento della tessera dall’anno successivo.
Tutto sommato, questo tipo di concorso è il più “corretto”: è interesse delle associazioni assicurarsi i “migliori” tra quello che passa il convento. La qualità media dei propri associati è molto importante e non si può abbassarla facendo vincere poeti “ignoranti” (che ignorano).
Le Giurie, interne all’associazione organizzante, valutano con attenzione ogni componimento, visto che alcuni degli autori selezionati faranno parte, in seguito, dello stesso sodalizio: meglio colleghi bravi, che “ignoranti” (che ignorano).
Questo concorso è sempre “in perdita”, in quanto di solito non sono richiesti “diritti di segreteria”, o hanno un valore estremamente basso. Visto che si tratta di un investimento, l’associazione organizzatrice sa benissimo che deve stanziare una certa cifra, ipotizzando che l’anno successivo ci possa essere un rientro economico sotto forma di tessere confermate dai vincitori.
Altre categorie di concorsi non ne conosciamo, anche se non mettiamo in dubbio che esistano. Ripetiamo e sottolineiamo che stiamo parlando di poesia dialettale: quella in lingua non ci interessa perché abbiamo fatto nostro quanto scritto da Pasolini: “il dialetto è l’unica barriera all’omologazione culturale”.
Abbiamo così riassunto con parole discretamente chiare uno degli aspetti meno conosciuti di ciò che si muove intorno alla poesia, in Italia.
Ovviamente, quanto esposto è frutto della nostra personale esperienza: ogni riferimento a fatti e persone non conosciuti direttamente, è casuale e non intenzionale, ma rientra nelle cose esposte. Salvo (difficile) smentita.
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14 anni 32 settimane fa