DIALETTO, LINGUA VIVA

Perché quando si parla di una lingua (o di un dialetto) si suole definire il linguaggio “vivo”?
Perché chi usa una certa lingua è come se ogni giorno provasse ad inserire o togliere più o meno volontariamente un piccolo tassello in quella costruzione spettacolare e mutevole che è il linguaggio.
Ogni linguaggio è regolato dalla propria Grammatica. Ma chi è nato prima? La grammatica o il linguaggio?
Sicuramente la lingua, dandosi regole spontanee e autonome che, analizzate e codificate dai Grammatici, fotografano quel linguaggio in un certo momento della sua storia.
Poi, che succede? Succede che quelle regole diventano inadeguate al parlato (e poi allo scritto) di un momento storico successivo. Questo momento storico è lungo decenni: ce ne vogliono almeno 4 o 5 affinché si cambi qualcosa nel linguaggio.
Allora i parlanti (e poi gli scrittori) iniziano ad usare il “nuovo” linguaggio che sarà studiato e regolamentato da altri Grammatici, che codificheranno le nuove regole.
E dopo? Si ricomincia da capo, con un altro “nuovo” linguaggio parlato (poi scritto) e di nuovo codificato dai Grammatici, e così via.
Per questo una lingua è viva: perché cambia le sue parole e le sue regole. Anche se per cambiarle (prima spontaneamente, poi scientemente) ci vogliono tanti, tantissimi, anni.
Il nostro romanesco non sfugge a questo andamento, salvo per quello che i Grammatici hanno fatto fino a oggi. In pratica: niente.
Salvo qualche raro esempio di “grammatica belliana” pubblicato autonomamente o inserito in appendice a qualche vocabolario più o meno valido e preciso, una “fotografia” del dialetto di Roma è stata pubblicata solo nel 2020!
Malgrado i limiti di diffusione dovuti al Covid19, “A nò, come se scrive?” Grammatica Insolita del Romanesco Attuale, è stato il sasso nello stagno del nostro dialetto.
Come ogni sasso, ha infranto la piattezza dello stagno in cui il romanesco dormiva.
Come possiamo parlare di un romanesco “vivo”, se non abbiamo grammatiche precedenti a cui rifarci?
Sta lì la bellezza del dialetto: nella autonomia, nella spontaneità, nell’immediatezza espressa solo con certe parole che salgono dalla memoria e dal cuore.
In mancanza dei Grammatici, i romaneschi hanno “tratto la regola dall’uso” (come diceva Belli), ovvero hanno codificato spontaneamente, senza norme scritte, il proprio lessico, la grammatica, la sintassi. Prima nel parlato, poi nello scritto.
Per nostra fortuna, tra Belli e i moderni, ci sono state generazioni di poeti (perché il dialetto scritto si usa, normalmente, solo in poesia) che hanno fatto vivere il romanesco con parole nuove e regole nuove, che dedotte autonomamente da ogni lettore attento, sono andate a formare quella “grammatica non scritta” che è stata valida fino a ieri.
Lo scrittore (dopo il parlante) ha avuto l’opportunità di selezionare le parole più espressive e le regole più adatte per esprimersi correttamente “traendo la regola dall’uso”, dovendo fare a meno di norme scritte dai Grammatici.
Ogni fotografia invecchia, e prima o poi (nell’arco di qualche decina di anni: tanto dura un linguaggio) qualche grammatico rivedrà e ricodificherà le norme dialettali attuali, documentate e raccolte nel libro in questione.
Le dissertazioni accademiche, oggi molto più diffuse grazie agli strumenti informatici, alimentano le discussioni sulle parole, sulla grammatica, sulle opportunità linguistiche offerte dal “mercato”, tra le (per fortuna tante) persone interessate a fare in modo che questo nostro dialetto continui a vivere.
L’Accademia Romanesca è da anni in prima linea in questa guerra: di retroguardia o di avanguardia?
Retroguardia in quanto destinata a difendere le ultime propaggini di un esercito/dialetto ormai in fuga dall’aggressività di un linguaggio pseudonazionale dominante?
Avanguardia che batte le piste possibili per l’avanzata delle truppe che combatteranno per la supremazia morale della “lingua madre”?
Difficile rispondere.
Sicuramente chi si batte a favore del dialetto, è tra due fuochi: il prevaricante linguaggio di una nazione unita politicamente ma non umanamente, né omogeneamente, né idealmente, e il fuoco amico rappresentato dall’imbarbarimento del dialetto dei padri stuprato dall’ignoranza di troppi degli attuali scriventi e ingigantito e diffuso ovunque dai moderni mezzi di comunicazione.
Difendersi su due fronti è difficile quanto attaccare per spianare la strada a un recupero della considerazione, dell’uso, della trasmissione di regole e lessico schiacciati dalla scarsa memoria e dai mass media.
Tutto sommato, l’interesse che il dialetto suscita non è altro che la dimostrazione della vitalità di una lingua.
Quindi, è e sarà giusto documentare, diffondere e rivalutare l’importanza di ogni dialetto.
L’Accademia Romanesca è stata fondata e continua a vivere per questo!

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