CI RIMANGO MALE (con commenti)

Di seguito, un articolo del presidente Marcelli. Pubblicato sul periodico Pelasgo 968 in occasione della premiazione del concorso di Grottammare, ha ricevuto consensi e condivisioni: voi che ne dite?
Potete comunicare le vostre impressioni direttamente a: presidente@accademiaromanesca.it. Buona lettura.

(Di seguito, pubblichiamo i commenti più significativi che ci sono pervenuti)

CI RIMANGO MALE

Ci rimango male, quando la gente considera il dialetto una “lingua di serie B”.

Ci rimango male, quando i Poeti (quelli veri, con la P maiuscola) anziché scrivere le loro emozioni, allineati e coperti dietro le uniformi uniformanti della lingua italiana, non rompono le righe seguendo il loro primo istinto, quello che trasmette l’emozione dell’immediatezza attraverso quella scorciatoia che mette in comunicazione i pensieri con la parola: il dialetto.

Ci rimango male, se vedo che chi salta il fosso dell’omologazione, non trova chi possa risolvere i dubbi che vengono quando si vuole trasformare in forme grafiche un suono: il caro suono delle parole dialettali. Sono pochissimi i centri culturali dove si “insegna dialetto”: segno di mancanza di fondi, e/o mancanza di capacità e di interesse?

Ci rimango male, quando mi rendo conto che sono pochi quelli che cercano di risolvere quei dubbi: pensano che non esistano regole e scrivono di conseguenza, usando lessico, sintassi e ortografia approssimate alle loro capacità. Forse sono loro che innescano quel meccanismo perverso che si avvia leggendo composizioni “scritte male” e che quindi abbassano il livello della qualità del linguaggio? Lo fanno perché non c’è chi insegna, o perché si sentono “imparati”?

Ci rimango male, esaminando centinaia di poesie in tutti i dialetti d’Italia e constatando che la maggior parte dei poeti riserva al vernacolo solo un certo tipo di sensazioni, argomenti, emozioni: quelle legate ai ricordi, alla tradizione, a fatterelli più o meno ironici. Difficilmente vengono affrontati temi Alti e Grandi, come se esprimersi in dialetto impedisse di esplicitare concetti sociali o politici, filosofici o religiosi, intimisti o universali.

Ci rimango male, quando vedo che i Poeti con la P maiuscola: quelli che raggiungono altissimi livelli di espressione curando sia la tecnica che il sentimento (che è la sola condizione in cui si possa parlare di Vera Poesia), vengano quasi messi da parte o esibiti come comprimari nelle varie premiazioni o recensioni. Mi accade, purtroppo è la regola, di assistere alle premiazioni dei concorsi e vedere che i premi e le premiazioni dei concorrenti siano sempre in funzione di un’attenzione maggiore per chi si esprime in lingua anziché in dialetto. Come se l’impegno nella ricerca, nell’approfondimento, nel mantenimento e nella diffusione dei dialetti, passasse in secondo piano rispetto alla facilità di espressione, all’inutile complicazione dello scritto rispetto al parlato e alla desolante omologazione delle forme e dei contenuti, di chi si esprime in italiano.

Ci rimango male, vedendo che nel “mare magnum” della poesia, i pochi “rari nantes” non vengono soccorsi perché destinati comunque ad essere perduti. È vero che battersi per il dialetto è una battaglia di retroguardia, perché comunque la guerra si sta perdendo ed è solo questione di tempo la sparizione degli idiomi locali? A favore di che? Di una lingua sempre più sgrammaticata, sempre meno pura, sempre più appiattita come la sua poesia?

Ci rimango male quando le mie idee vengono bollate come faziose e preconcette: anni di esperienza diretta e approfondita sull’argomento, mi autorizzano ad esprimere certi concetti senza paura di essere smentito. Forse i faziosi sono quelli che non si rendono conto di far male alla poesia. (“… soffio leggero de pensiero umano/ amica che ce pija pe la mano/ e ce rigala sogno e fantasia.”)

Ci rimango male a dover fare certe considerazioni. Ci rimango molto male.
Maurizio Marcelli

COMMENTO di Franco Paolucci:
Non ci rimango male ma mi rattristo quando penso che tanta fatica, fatta da chi cerca di codificare regole che permettano di intensificare l'attenzione di chi si accinge a sfogare la propria fantasia mediante versi in dialetto, sia destinata per propria solida natura a essere rispettata con tanta lentezza quanto sia più alto il grado di autostima di coloro che ne vengono a conoscenza.

Queste regole, cariche di immediatezza e di disarmante semplicità, lungi dal pretendere di interferire con l'essenza poetica di chi scrive, invitano al rispetto di forme espressive ispirate a un dialetto consolidato e lineare di ultima formazione, figlio e nipote di un dialetto meno recente scremato diligentemente nel tempo e prevalentemente condivisibile.

Molto mi consola l'idea che questa fatica non andrà mai sprecata e contribuirà sempre più alla realizzazione di prodotti poetici romaneschi di maggior pregio. Almeno nella forma.

COMMENTO di Alessandro Palmieri
Caro Maurizio,
ho letto il tuo bell'articolo "Ci sono rimasto male" sul sito dell'Accademia. Ovviamente condivido TUTTO quello che dici al 100x100. Il dialetto, purtroppo, è e resterà (per sempre?) confinato nel limbo dei "desperados" (che fra un po' diventeranno "desaparecidos") e poco possiamo fare io, te, e tutti quelli che la pensano come noi, per cambiare un'opinione largamente diffusa in ambito nazionale e non.
Anche perché a rafforzare l'idea che sia cosa di poco conto scrivere in dialetto, ci pensano i "parvenu" del momento, gente cioè che usa il dialetto a proprio uso, consumo e costume, perseguendo filosofie concettuali perverse, disattendendo (per presunzione oltre che per mera ignoranza) tutto ciò che di buono e giusto hanno fatto coloro che prima di essi si sono cimentati nell'opera.
Il dialetto merita uno studio, un rigore, un rispetto (soprattutto formale), un'applicazione e una devozione da SACERDOTI. I novelli seguaci del dialetto, molto spesso, sono ATEI. Che devo dire di più?

COMMENTO di Claudio Porena (ermetico, lapidario, bellissimo!)
Tu ciarimani male, ma rimani!

COMMENTO di Simonetta Paganelli
Grazie di aver scritto un articolo così chiaro e appassionato, che rappresenti in pieno il pensiero di chi si accosta con nostalgia affetto, curiosità, ironia, gioia al nostro dialetto, alle nostre radici e anche al sapore della nostra infanzia.
Sono troppe le persone che si beano nell'usare un romanaccio becero, inventato solo per far ridere chi della musica e della poesia di un dialetto non sa proprio niente e manco lo vuole sapere.

COMMENTO di Giorgio Bruzzese
Ogni tanto sorte fora quarcuno, che propone qualcosa di nuovo: è tutto lecito, finché non si vuole imporre agli altri ciò che si propone. Quello che bisogna salvaguardare è il dialetto e anche se a volte la poesia è di scarso valore, si deve apprezzare lo stesso, perché ha diffuso pagine in dialetto. Ho scoperto che in tutta Italia c’è un mare di gente che tratta i dialetti, tant’è che l’ho definito un “movimento”. Per questo bisogna spingere per far approvare la legge per insegnare i dialetti nelle scuole.

COMMENTO di Paola Volpi
Che la poesia in dialetto sia considerata di serie B è purtroppo vero: quindi concordo con te. Si tratta di una realtà toccata con mano nei concorsi letterari. Infatti non vi partecipo più anche per questa ragione.
Caro Maurizio, anche se i poeti dialettali sono "rari nantes" sparsi nel vasto gorgo, io credo che dobbiamo continuare a fare quello che facciamo. Probabilmente i Poeti si disperderanno, ma mi piace pensare che qualche barca, un giorno, possa soccorrerli. Comunque hai fatto bene a scrivere quell'articolo... sebbene io abbia molti dubbi sull'onestà intellettuale di molti "intellettuali" ai quali ti sei rivolto.

COMMENTO di Sergio Coccia
A proposito del tuo "ci rimango male", dico che i dialetti sono in decadenza (non destinati a sparire) perché dal 1870 tutte le autorità della Pubblica Istruzione hanno sempre combattuto i dialetti.
In quanto alla grafia e all'ortografia noto che c'è una jungla da disboscare e questo anche nella canzone romana. Deriva forse anche dalla divisione che esiste tra le associazioni poetiche-romanistiche.
Chi fa il lavoro di istruzione e correzione che fai te?

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